mercoledì 10 ottobre 2012

In Primarie veritas: D’Alema contro Renzi


Fanno sorridere i molti elettori del Pd che vedono nel giovane Renzi un segnale di discontinuità, di possibile rinnovamento del partito. In realtà, la vicenda delle primarie è una cruenta lotta di potere, tra un vecchio establishment ormai logorato da anni di consociativismo e un giovane rampante che di quel consociativismo ne fa una bandiera di successo.

Il Pd, uscito miracolosamente quasi indenne dalla vicenda di mani pulite, non si è mai sottratto alle consuete logiche della politica fatte di spartizioni, ricatti, e finanziamento illecito. Si è limitato ad una posizione di critica inerte, contribuendo con la sua assenza, e spesso con i suoi voti, a costruire una situazione istituzionale di degrado senza precedenti. Prova ne sia l'atteggiamento verso Penati, o prima ancora verso Tedesco e Frisullo, tutti uomini imposti da D'Alema. Testimoni del fatto che il sistema dei partiti tutt'oggi è basato sui finanziamenti provenienti da ogni voce di spesa pubblica e che la capacità di gestire ed accrescere tale flusso è ancora condizione per accedere ai vertici.

Renzi non prende alcuna distanza da questo ordine di cose, ma si limita ad ascrivere “l'antipolitica” che le denuncia, come problema di emorragia di voti, da fermare con provvedimenti di facciata come il solo dimezzamento del numero dei parlamentari, amen. La sua preoccupazione è tutt'altra: presentarsi come il nuovo e smontare l'assetto di potere esistente ed in primis rimuovere, prima ancora di Bersani, il vero ”reggente” delle segrete stanze, D'Alema: ”Se vince Bersani lo aiuterò, se vinco io D'Alema ha finito di fare politica- e ancora - Se dopo 25 anni che sta in parlamento si ritirasse, non sarebbe uno scandalo”; una dichiarazione di guerra. Renzi e' un politico “nuovo” nel senso dispregiativo del termine; ha alle spalle un mago della comunicazione come Giorgio Gori, e occupa gli spazi della rete con slogan studiati a tavolino ripetuti all'infinito. Contenuti pochi, spesso contradditori, ma sufficienti a far tremare un partito immobile e in preda a una crisi d'appartenenza.

In questo quadro non possono sorprendere le dichiarazioni di ieri di D'Alema contro l'arrembante pretendente: ”Volevo lasciare il parlamento ma ho deciso di restare (ci crediamo..). Renzi ha sbagliato, e se continuerà si farà male”; le minacce non sono più neanche velate. "La settimana scorsa Renzi è andato a Sulmona. Sapete come? Jet privato da Ciampino, poi una Mercedes. In camper c'è salito alle porte di Sulmona: ma quando è arrivato in piazza, tutti ad applaudire il giovane ribelle che 'altro che auto blu, lui viaggia in camper'. Non lo ha scritto nessuno che si muove così. Che altro dire?”

Nulla, verrebbe da aggiungere. Solo che nessuno dei due pretendenti parla dell'articolo 18, del rapporto mafia-politica, del conflitto di interessi, del metodico smembramento di ogni welfare nel nostro paese; la differenza qual è? Pare che tanti elettori del Pd la vedano, tanto da dibatterne e pure animatamente; beati loro.

Intanto , l'unica invocazione che nasce ancora spontanea e' quella di Morettiana memoria: "Per favore, vi prego, dite qualcosa di sinistra.”








lunedì 8 ottobre 2012

La trappola di Sallusti e l'inciampo di Travaglio.


Se qualcuno avesse avuto dei dubbi riguardanti l'opportunità dell'uso del termine  ”casta”  anche per i giornalisti, la vicenda Sallusti li ha sicuramente fugati. Una levata di scudi pressoché unanime, immediata, dai toni spesso drammatici, si è eretta a protezione del membro. ”Si può finire in carcere per un reato di opinione?” - questa era la domanda. E poco importava se la possibilità fosse, almeno nel caso di Sallusti, squisitamente teorica; era del principio che si discuteva.
Lo stesso Travaglio, pur ribadendo la sua disistima per il collega, scriveva: "I giornalisti sono cittadini come gli altri e non c’è nulla di strano se, in caso di condanna, la scontano. Vero: ma questo dovrebbe valere per delitti dolosi. Cioè per reati gravi e intenzionali. Sallusti è stato condannato per aver diffamato su “Libero” un giudice tutelare di Torino, Giuseppe Cocilovo, in un articolo del 2007 scritto da un altro sotto pseudonimo, ma di cui gli è stato attribuito l’“omesso controllo” in veste di direttore responsabile".
Ma diffamare qualcuno non può essere fatto in maniera grave e anche intenzionale?
E non è principio elementare che un direttore che consenta l'anonimato di un autore si debba assumere la responsabilità dell'articolo?
Ci sembra che, per una volta, il giornalista de ”Il Fatto” abbia abbandonato la strada del buon senso per argomentare a favore di una causa persa.
E veniamo all'articolo in questione, che neppure i più accesi difensori del direttore de ”Il giornale” hanno sostenuto essere scevro da colpe. Il pezzo è sfacciatamente diffamatorio, rivolto a chi (un giudice) non ha problemi di competenze nel formalizzare una querela, scritto da un ex giornalista radiato dall'ordine, e firmato Dreyfus (vi ricorda nulla?); il dubbio che l'evento sia stato prodotto con dolo è quantomeno legittimo.
Mi parę altrettanto innegabile la volontà postuma di farne un casus belli. Afferma lo stesso querelante: ”In sei anni Libero o un suo direttore non ha mai pubblicato una smentita” - e ancora - ”potevano dare 20mila euro a Save the Children; bastava solo questo...”. Ma Sallusti non l'ha fatto. Ha preferito continuare le esternazioni contro la magistratura, protetto dai media che titolavano spudoratamente riguardo la possibile futura carcerazione del'imputato. Uso deliberatamente il termine "spudoratamente" perché chiunque mastichi anche solo un po' di codice penale, są che per un incensurato (come in questo caso) la condanna per diffamazione può significare al massimo l'affidamento ai servizi sociali, a meno che non decida arbitrariamente di scontarla in carcere. E che detenzione è quella di chi decide autonomamente di auto-infliggersela? Punitiva? Al massimo, dimostrativa.
Sta di fatto che la questione è sembrata assurgere a carattere di urgenza, determinando l'ennesimo tentativo liberticida: una nuova norma, a firma Gasparri e Chiti, che dovrebbe passare giovedì in sede deliberante alla commisione giustizia del Senato. Abroga ogni pena detentiva del reato, e si connota per la sanzione pecuniaria minima applicabile: 30,000 euro, estesa anche a tutto quello che esce sulle testate on-line. Un deterrente formidabile per l'esercizio della critica democratica, e un'opportunità in più per i disinformatori di professione foraggiati dai poteri forti, che neppure reiterando all'infinito il reato rischieranno il carcere. Cui prodest?
Il nuovo tentativo di tacitare la libera informazione, specialmente quella on-line, è l'ennesimo colpo di coda di un sistema di potere morente, ormai sfacciatamente consociato come dimostrano le firme dei segnatari Pd e Pdl. L'attuale legge, anche se imperfetta, rappresenta oggi un importante punto di equilibrio; pur prevedendo come extrema ratio la carcerazione, consente comunque una sostanziale libertà di critica. Prova ne sia lo stesso Travaglio, streguo perseguitore della casta, eppure sostanzialmente immune da decine di querele che lo hanno investito; come ha fatto?: gli è bastato verificare le fonti e scrivere la verità.
Forse era il caso di difenderla, e senza cadere nei tranelli.