Una
nota comune dei grandi uomini di ogni tempo, e' saper spiegare con
parole semplici questioni molto complesse. Riporto qui un'intervista
del prof. Bauman di pochi gioni fa'; non mi sento di aggiungere
altro, sarei di troppo.
«La
ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte le
democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come
finirà, è il divorzio tra la politica e il potere».
Professor
Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di
fronte alla crisi?
«Sì.
Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica
quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell'altro.
Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità
territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto
dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il
vero potere scavalcando la politica.
I
governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché
il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal
potere globale della finanza, delle banche, dei media, della
criminalità, della mafia, del terrorismo... Ogni singolo potere si
fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei
governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre
assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell'Italia...».
E'
l'età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della
finanza: era meglio prima?
«Il
capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di
appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con
il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori
profitti. E' la chiusura di un cerchio, di un potere
autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale.
Naturalmente
questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito,
ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e
paga domani o dopo. La finanza ha creato un'economia immaginaria,
virtuale, spostando capitali da un posto all'altro e guadagnando
interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava
sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo
cose ma facendo lavorare il denaro. L'industria ha lasciato il posto
alla speculazione, ai banchieri, all'immagine».
Non
ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova
Bretton Woods...
«Il
guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo
è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad
alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a
imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a
risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo
alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli
interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati
ancora creati».
A
proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell'Unione
siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi
che impediscono una reale integrazione politica e culturale?
«E'
vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l'attuale
condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e
l'impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici
La
globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent'anni fa, in
Europa non c'era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti
bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi... Ora potremmo
finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?
«E'
un compito difficile, molto difficile. L'obiettivo dev'essere quello
di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono
governi che cercano di frenare o bloccare l'immigrazione, dall'altra
ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli
immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le
diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le
tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme,
in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che
rappresenta invece una grande ricchezza».
Da
"Il messaggero"
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